Riflessioni durante la lettura di:
Graziano Senzolo, La droga fra clinica e discorso sociale, Libreria a Segno Editrice, Pordenone, 2011
di Riccardo Marco Scognamiglio
Psicologia Psicosomatica – 11 – Pubblicato 8 Marzo 2012
Il sottotitolo di questo recente lavoro di Senzolo è decisivo: “Tre lezioni su Lacan e la tossicodipendenza” – così come il contesto editoriale: “Materiali, forum psicoanalitico lacaniano”. La pubblicazione è, infatti, realizzata con il contributo dell’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali, Scuola di Psicoterapia aderente, appunto, al Forum Psicoanalitico Lacaniano, dove le lezioni si sono svolte. Il volume mantiene, quindi, l’impostazione didattica originaria, con quell’andamento volutamente didascalico ed esegetico del testo lacaniano, che ne rappresenta un valore aggiunto per chiarezza e propedeuticità. Chiarezza che può essere solo un incoraggiamento verso chi ha sempre temuto il testo di Lacan come troppo criptico e involuto.
L’abilità di Senzolo è di mettere, viceversa, in risalto la lucida puntualità con cui Lacan sapeva affrontare i più diversi fenomeni della clinica determinando chiavi di lettura molto precise e spesso anticipatorie rispetto alla realtà storica del suo tempo.
Il primo merito di questo lavoro è, quindi, quello di far precipitare quei nodi teoretici che a un lettore esterno sarebbero difficilmente reperibili, sparsi nella vasta opera del maestro francese, provando a ricostruire una grammatica di base della fenomenologia clinica della “dipendenza” di cui, quella dell’abuso di sostanze, ne è una declinazione possibile.
Da questa ricostruzione Senzolo ne deduce, con generosi riferimenti alla personale esperienza clinica, le due conseguenze logiche di una teoria della clinica: una concettualizzazione della diagnosi e una prospettiva di trattamento. Una interdipendente dall’altra, basate sul presupposto che dietro una patologia c’è una soggettività patente che si può accogliere sia nel contesto della diagnosi che in quello della cura, solo in quanto “particolare”, agente o effetto di una storia che non può essere generalizzata, né ricondotta a una classificazione di sostanze.
Al centro della grammatica clinica c’è un elemento cruciale che Lacan concettualizza nel processo di “separazione”, che riguarda una fondamentale tappa evolutiva all’uscita dalla fase edipica. La domanda che ogni psicoanalisi si pone per ciascun soggetto è: “Come se l’è cavata con questo compito evolutivo?” In questo nodo si colloca effettivamente la singolarità di ogni posizione soggettiva in rapporto al suo essere nel mondo.
Il soggetto tossicomanico come ogni paziente della clinica della dipendenza, mostra relativamente a questo punto, la difficoltà specifica a separarsi dall’ideale di essere l’oggetto del godimento materno; e, soprattutto le conseguenze di questa difficoltà, i suoi arrangiamenti successivi per sopravvivere psichicamente a questa perdita, sostenendone l’angoscia.
Ogni bambino ha bisogno di ricevere e fare proprie le “istruzioni per l’uso” dei sistemi che regolano le relazioni familiari e sociali, compresi il corpo proprio e quello dell’Altro materno. Questi strumenti simbolici di orientamento che devono avere una funzione regolatoria (anche in senso neurofisiologico) e normativa, in Lacan si riassumono nella Funzione Paterna che, al culmine del processo di maturazione genitale del bambino hanno lo scopo di affacciarlo alla complessità dei meccanismi affettivo-relazionali, conferendogli un posto simbolico, un nome, un’identità nel mondo delle relazioni sociali.
Il difetto della Funzione Paterna nel mondo attuale condanna spesso il bambino e, successivamente, l’adolescente a un far da sé che, nel suo bricolage esistenziale si trova spesso a fluttuare in un flusso di oggetti-identità che il mercato dei consumi fornisce in forma sempre più massiva e seduttiva. Tossicodipendenza, anoressia, bulimia, dipendenza dal gioco, dal sesso e – aggiungerei io – dalle forme di malattia cronica-degenerativa, diventano sempre più spesso i nomi propri in cui trovare un “rifugio” identificatorio, laddove nella struttura non si è costituito quel processo di riorganizzazione simbolica dei propri moti pulsionali, lasciando posto all’angoscia.
Il mondo della dipendenza si articola all’interno di una logica sociale che prende il posto della Funzione Paterna attraverso un meccanismo perverso: il desiderio dell’Altro rimane occultato dietro l’offerta di mercato camuffata da un bisogno del consumatore. Se questo è un meccanismo di organizzazione sociale di cui tutti siamo patenti, nel mondo delle dipendenze si esaspera il paradosso per cui lo stesso consumatore è giudicato colpevole della sua dipendenza. Insomma la partita è sempre giocata fuori dialettica: non si sa dove sia veramente l’Altro in quanto interlocutore. La struttura del contesto sociale replica così la struttura base dei meccanismi di “doppio legame”, per usare un fortunato termine della teoria sistemica, che viveva all’interno del nucleo parentale originario. Troviamo così il soggetto dipendente cristallizzato in un meccanismo fuori dialettica che non si evolve, che non ha una temporalità, che ripete infinitamente lo stesso schema. Così, il paziente in questione, non si riesce ad individuare in un discorso che gli è proprio, nemmeno relativamente al proprio malessere: è parlato da sempre dall’Altro, sebbene non sia quasi mai evidente chi parla a chi.
Se, come il sottoscritto, ci si occupa di Psicosomatica, si ha il vantaggio di potersi riferire a un insieme di fenomeni sintomatici che solo marginalmente è marchiato dal concetto moralistico di un godimento del sintomo (cosa però di cui patiscono gli ipocondriaci). Questo consente di evidenziare, però, come lo stesso schema che interessa un soggetto dipendente, nel campo della malattia del corpo, non corrisponda più a un piacere parassitario, bensì possa prendere le forme più terribili del dolore. Nel paradosso, si radicalizza ancor più la clinica del particolare: la malattia cronica rivela ancor più una dimensione della dipendenza dove l’oggetto del godimento (che non coincide col piacere) risulta più un accidente che non una scelta, mentre la scelta, in senso etico, si riferisce alla ricerca, da parte del soggetto, di una posizione nel mondo, di un’identità psichica da cui avere l’impressione di tenere sotto controllo l’angoscia.
Tutto ciò appare chiaramente in controtendenza assoluta con gli approcci clinici istituzionali alla dipendenza, a partire dai disegni di ricerca che puntano alla generalizzazione. Nel caso della tossicodipendenza, in particolare, l’approccio al “male”, sia in senso diagnostico che terapeutico, avviene generalmente dal lato della classificazione del sintomo in rapporto alla sostanza, all’oggetto e non del processo dinamico che sostiene il rapporto con quel determinato oggetto. Il soggetto così scompare completamente dietro l’epifenomeno comportamentale dell’assunzione del tossico, trovando come contropartita l’assunzione di farmaci che riproducano in forma socialmente controllabile la medesima condizione narcotizzante che il paziente aveva trovato come formula supplettiva all’inabissamento angoscioso nel proprio non essere.
La società munifica di pharmaka magici ripristina la dipendenza ad un altro livello socialmente adattivo, al prezzo comune di rinunciare ancora una volta a una parola propria, al ridursi, come dice Senzolo, a “corpi che non pensano”, come i corpi narcotizzati.
La lezione lacaniana da cui l’autore prende le mosse, si rivela alla fine come uno strumento per dire una verità scomoda e di denuncia. Una psicoanalisi oggi è un’operazione fuori mercato, antieconomica: è la via di una risoggettivazione che non può che passare dallo svelamento di una menzogna, la menzogna dell’Altro che il soggetto deve imparare ad attraversare, dolorosamente come è dolorosa ogni caduta di ideale.
La psicoanalisi è di per sé una denarcotizzazione dall’Altro!