Rimandi psico-analitici a due voci sul mito mediatico.

di Alice Scognamiglio & Riccardo Marco Scognamiglio

Psicologia Psicosomatica – 16 – Pubblicato 22 Maggio 2012

Dopo il successo internazionale riscosso dai romanzi, “Dexter è diventata una serie televisiva di culto. Il suo protagonista è forse un eroe ipermoderno? Il modello ideale nell’attuale disagio nella civiltà? E’ dunque il soggetto alessitimico, che può sedurre con la sua assenza di emozioni, che può solo imitare i comportamenti umani e che incarna la funzione di un esecutore di una giustizia al di là della Legge?

Harry Morgan: “ Sono fiero di te.
Hai protetto Astor, ti sei esposto per un’altra persona.
Non credevo che fossi capace di farlo, ti ho sottovalutato.
Ti ho considerato un mostro, quando invece sei capace di fare molto di più.
Se l’avessi capito, non ti avrei indirizzato verso questa vita.”
[Tratto dalla serie televisiva “Dexter” – stag. V, ep. 9]

Dexter Morgan è il protagonista di una serie di romanzi scritti da Jeff Linsday, autore americano, editi in Italia da Mondadori. Dal primo di questi, “La mano sinistra di Dio”, riproposto con il titolo “Dexter Il Vendicatore”, del 2004, è stata tratta la prima di sei serie televisive di produzione statunitense, nel 2006. Mentre la prima stagione segue largamente la trama del primo romanzo, dalla seconda la serie si distacca totalmente dai libri, seguendo una propria continuità. Sia i romanzi che le serie hanno avuto grande successo: le serie e i loro interpreti hanno ricevuto numerosi premi, tra cui vari Satellite Awards, alcuni Saturn Awards e due Golden Globe.
Dexter è un ematologo della polizia di Miami, ma allo stesso tempo un killer esperto e metodico. Harry, il padre adottivo, gli ha insegnato a uccidere seguendo un rigoroso codice: eliminare solo altri killer che sono sfuggiti al sistema legale o che non sono mai stati sospettati per i crimini commessi.
Ogni serie ruota attorno al rapporto di Dexter con un antagonista e, in alcune di esse, con un deuteragonista (Nota 1), necessari ad articolare ulteriormente il plot narrativo. L’ambiente in cui agisce il protagonista è diviso fondamentalmente fra la stazione di polizia di Miami Dade e la famiglia (la fidanzata, poi moglie, Rita e i figli di lei, Astor e Cody, oltre al figlio nuovo nato – figlia nel romanzo), che fanno da binario scenico di una variegata sequela di spot delittuosi.

Il paradosso dell’iper-normalità

Alice Scognamiglio: Famiglia da una parte e fratellanza dall’altra, rappresentata dai colleghi del dipartimento di cui fa parte anche la sorellastra Deborah…
Riccardo Marco Scognamiglio: Di fatto, rappresentano entrambi il “rifugio” di Dexter, il sembiante della Legge, quel delicato confine fra normatività e normalizzazione, che fa da contrappasso al suo segreto indicibile di essere un killer.
A.S.: Forse, al di là delle apparenze, il segreto del successo, che ha reso sia i romanzi che la serie televisiva un cult, non è dovuto alla figura del vendicatore. La letteratura di tutti i livelli è piena di giustizieri, tanto da farne un topos letterario ormai consumato. Persino i supereroi della letteratura fantasy difendono una giustizia che l’umanità non riesce più a garantire. Ciò che affascina del personaggio di Dexter credo sia paradossalmente il suo disadattamento e la sua voglia di reintegrarsi. È questo che lo rende un eroe originale e atipico.
R.M.S.: Effettivamente, a differenza di tutti gli eroi e supereroi giustizieri, in cui il tema della giustizia è l’esplicitazione del loro potere, in Dexter si sposta tutto dalla parte del sintomo, la sua sete di giustizia è la sua “malattia”. Ne nasce un personaggio umano, pur nella sua estraneità al mondo della comune umanità.
A.S.: Un protagonista del tutto irreale nella sua unicità, fuori dagli standard sociali, ma che, al contempo, potrebbe essere il nostro vicino di casa.
R.M.S.: Dexter personifica un paradosso: incarna un “mostro”, ma non sotto la maschera di un viso angelico, bensì sotto quella di un individuo dalla normalità inquieta. Ben mimetizzato in un contesto di vita comune, a volte, tuttavia, mostra un suo lato enigmatico, nella sua estraneità alle emozioni – quella che noi in clinica definiremmo posizione alessitimica. L’aspetto affascinante è dato, a mio parere, dal fatto che sia un soggetto così compensato, in un equilibrio omeostatico perfetto, persino invidiabile.
L’alessitimia – che vuol dire difficoltà o impossibilità a esprimere, elaborare, veicolare le emozioni in forme affettive, relazionali, in comportamenti verso l’esterno – tende a creare, soprattutto se presente in misura clinicamente significativa, come nel caso del nostro personaggio, un ingorgo psichico con effetti anche neurofisiologici di natura eccitatoria, stato che definiamo hyperarousal. Questo genere di fenomeni non è possibile considerarlo solo sul versante psichico. L’alessitimia, quindi, va pensata anche come disturbo somatico. In genere quando un paziente alessitimico (ad es. tossicodipendente oppure bulimico) vive un traboccamento dell’arousal, percepisce l’impulso ad agire non come ricerca di un godimento, bensì come risposta automatica di natura neurofisiologica a un ingorgo di stimoli interni. Input down-up, che vanno da sistemi periferici verso il cervello, spesso non arrivano a stimolare la corteccia cerebrale, così da rendere non elaborate quelle risposte di ritorno up-down, che dovrebbero avere la funzione di regolare l’ingorgo. L’arousal permane, così, in una forma eccitatoria, percepito per lo più come uno stato d’angoscia, un’ansia irrefrenabile. Nell’alessitimia, questo può prendere due strade: quella della malattia somatica o dell’agito compulsivo (che può assumere forme differenti: dalla “dose” all’andare, ad es., in macchina a 200 all’ora per sfogarsi). Queste forme di comportamento patologico sostituiscono la funzione autoregolativa deficitaria.
A.S.: Quindi, quello che sembra essere il sintomo, paradossalmente, diviene una forma di cura.
R.M.S.: Certo. Con questo tipo di soggetti, se non ha già trovato un sistema compulsivo (la bulimia, la tossicodipendenza, la sessualità, internet, la giocopatia, per citarne alcuni), che permetta loro di veicolare questo stato di iperstimolazione intollerabile (Freud definisce la pulsione col termine “spinta”, Trieb), il compito del terapeuta è quello di trovare delle buone compensazioni. Dexter, tuttavia, ne ha di buonissime. Ciò che è affascinante di questo personaggio è che esaspera questo equilibrio recuperato, che rende la deriva compensatoria molto potente.
Questo meccanismo compensatorio ha diversi aspetti: anzitutto lo inscrive in un sistema sociale, in cui guadagna uno statuto di “normalità”. Il problema, semmai, è che si tratta di un’iper-normalità, una forma di omologazione dall’effetto così flat, da destare persino, di tanto in tanto, una certa sospettosità in personaggi speculari (i vari “doppi”, i deuteragonisti/antagonisti che permettono nelle serie l’articolarsi della trama narrativa e che hanno in comune con Dexter, con decisamente minor capacità compensatoria, il rapporto con la propria parte oscura, il Dark Passenger). Vero è che il personaggio Dexter, nella sua iper-normalità sociale, è molto più equilibrato, ragionevole, capace di agire, rispetto a una comune persona nevrotica che non uccide, però può vivere come un essere tormentato, in continuo conflitto, soffrendo d’inibizioni, che possono arrivare a produrre disadattamento sociale.
Dunque, Dexter, in questa iper-normalità, è un “personaggio” e, in quanto tale, una costruzione narrativa; si vede come su vari piani riesca a simulare esageratamente bene: come, per esempio, con la moglie Rita o con altre donne, con cui riesce ad avere una relazione “quasi” normale. Questa specie di falso Sé funziona molto bene, mentre il vero Sé è altrove ed è impegnato in qualcosa di segreto, indicibile, ma molto efficace.
A.S.: E il valore di giustiziere, quindi?
R.M.S.: Un altro aspetto, effettivamente, è quello valoriale: la capacità del protagonista di riuscire ad avere nella sua compulsione, paradossalmente, anche dei valori. Il suo sintomo, implicitamente, è un beneficio per la società, rende un omaggio alla giustizia, anzi, è “più giusto” della giustizia stessa. Questo non solo lo placa, ma gli permette di inscrivere in un contesto simbolico i suoi atti criminosi.
A.S.: Quindi, in questo equilibrio perfetto, di fatto, diventa “incurabile”.
R.M.S.: Il paradosso è estremo, però, ragionando in questo contesto astratto, una persona in un equilibrio simile, non diventerebbe probabilmente mai un paziente. Infatti, l’aspetto più interessante di questo personaggio è che nel suo intimo (tradotto sia nel romanzo che nella serie con il dialogo interiore) si interroghi molto sulla propria natura, sulla propria estraneità rispetto al mondo. Esiste in Dexter una capacità metacognitiva che raramente troveremmo in una persona reale con la medesima struttura psichica.

Il codice come coscienza

A.S.: Ma questa sua doppia personalità può essere anche ricondotta a una sorta di schizofrenia? Perché Dexter, soprattutto nei libri, cita spesso questo “Passeggero Oscuro”, una sorta di guida interiore che comunica con lui, commenta, consiglia però, fino a prenderne il sopravvento nel momento di commettere un omicidio.
R.M.S.: Nella realtà è difficile pensare a una schizofrenia così ben compensata e, soprattutto, così ben ragionata. Inoltre, Dexter non delira, non ha allucinazioni.
A.S.: Questo è anche sottolineato dal fatto che nei libri non esista la presenza del fantasma del padre, che lo accompagna nei momenti critici. Lui sa sempre quello che vuole e quello che fa e ha un’assoluta consapevolezza del suo lato oscuro e della sua diversità dal resto del mondo.
R.M.S.: È il mondo, infatti, che gli fa problema, non la sua eccezionalità: posizione  che interroga, di cui investiga le cause, di cui vuole scoprire la verità.
Dovremmo piuttosto interrogare il versante perverso (Nota 2). Il perverso è ben inscritto nel simbolico, riconosce la struttura e la funzione della Legge, tanto da arrivare al punto da poterla ricostruire in proprio.
A.S.: La Legge in Dexter, in quanto struttura simbolica, esiste; anzi, lui si fa a suo modo tutore della Legge, sia nelle vesti del poliziotto che del criminale. La Legge, paradossalmente, è più che sostenuta.
Ma di quale Legge stiamo parlando? Legge e Codice non coincidono. Dexter segue il suo proprio Codice, o meglio, quello costruitogli addosso da Harry, il padre adottivo. Nel romanzo Dexter Il Devoto, arriva ad affermare: “Per quanto non sia dotato di una vera coscienza, seguo un insieme di regole precise che ne fanno le veci”.
R.M.S.: Questo passaggio è illuminante: indica la funzione sostitutiva della Legge simbolica rispetto al vuoto di coscienza. Il padre, o meglio, la Funzione Paterna, in senso simbolico, è un elemento clinicamente cruciale. Anche se è una Legge opinabile, la funzione di Harry d’inscrivere il piccolo Dexter nel registro simbolico del linguaggio è una chiave fondamentale. È quindi sempre presente sullo sfondo. Già come padre adottivo, Harry ha saputo individuare l’indole del bambino e poi dell’adolescente Dexter, determinata dall’impronta traumatica irriducibile dell’assassinio della madre, inscrivendola in un contesto di regole, il Codice, appunto. Dexter ha rimesso il padre simbolico al suo posto: il padre morto è una guida, gli dà dei limiti, delle regole, un codice. Tutte queste componenti sono elementi terapeutici, nel senso in cui riescono a ricostruire una funzione simbolica del padre che gli permette di dare una misura al sintomo.
Certo, il Codice introduce nell’Io del protagonista una scissione – proprio quella che Freud definisce Ich Spaltung, come una delle più potenti difese psichiche – in cui ciascuna delle due parti protegge l’altra.
A.S.: In questa costruzione così perfetta, però, appare appunto la struttura romanzata, perché è inconcepibile che un padre, fra l’altro poliziotto, porti il figlio a fare il serial killer. Questo è il paradosso narrativo: Dexter è un killer, però a suo modo, è un giustiziere, con una sua etica.
R.M.S.: Allo stesso tempo si potrebbe aggiungere che questo padre sembra aver avuto anche i suoi tornaconto nell’aver manipolato il figlio, facendogli compiere ciò che nella sua fantasia sadica di poliziotto non riusciva o non poteva fare.
A.S.: In effetti è proprio Harry che spinge il figlio ad uccidere una persona, la prima volta. All’inizio Dexter incanalava la sua pulsione omicida solo sugli animali. In fin di vita, in ospedale, Harry spinse il figlio a uccidere l’infermiera, che abbreviava, segretamente, la vita ai malati. In questa iniziazione del figlio alla malvagità degli esseri umani, si evidenzia anche un altro tema importante: il riconoscimento tra “mostri”, tra “predatori”. Harry mostra a Dexter che non è solo nella sua attitudine: anche l’infermiera aveva una natura simile a lui, la necessità di uccidere. Harry lo percepì nell’infermiera ed ella stessa lo riconobbe nel giovane Dexter, dallo sguardo e da, cito, “una potente energia che entrambi emanavano”.
C’è anche un aspetto molto ossessivo in Dexter, perché tutto ciò che fa, soprattutto riguardo ai suoi omicidi, deve essere minuziosamente programmato secondo le regole del Codice. In Dexter Il Vendicatore, l’”ingorgo alessitimico” lo spinge a uccidere un uomo senza alcun tipo di programmazione, senza seguire il Codice, sopraffatto dall’impulso; ciò, però lo porta a essere quasi scoperto dalla polizia. Dopo questo evento, da un lato si pente, per aver seguito un metodo inusuale o, anzi, proprio per non averne seguito alcuno, ma dall’altro si accorge dell’azione “benefica” che questo gesto ha potuto avere su di lui.
R.M.S.: “Benefico” nel senso di “ben fatto!” (qualcosa che placa prontamente il Trieb, abbassando l’arousal, cioè drenando l’ingorgo)? Oppure c’è la soddisfazione, mista a colpa, data dal distanziamento da questo imperativo categorico (Freud direbbe il Super Io), che è l’altra faccia del registro immaginario del Codice? Mi chiedo, cioè, se, quando Dexter devia da questo confine, non sia per cercare di individuarsi, di costruire una sua posizione indipendente rispetto all’immagine del padre o alla morsa della pulsione.
A.S.: A prima vista sembra sia più legata alla risoluzione rapida dell’ingorgo…
R.M.S.: Lo confermerebbe il fatto che l’individuazione rispetto al padre immaginario è molto più astratta, un’operazione più simbolica che, giustamente, s’intravede molto avanti nelle serie televisive…
A.S.: Tanto è vero che, a parte qualche eccezione, Dexter torna sempre a seguire il codice di Harry.
R.M.S.: Alla fin fine, il Codice gli funziona da Principio di Realtà, qualcosa che protegge, parzialmente limitandolo, il godimento del sintomo…
A.S.: La parte razionale, quindi, prevale sempre. È un modo, comunque, per proteggere la sua parte oscura.
R.M.S.: Tutto si gioca sul filo del rasoio: da una parte, un godimento irrinunciabile, che deve essere tenuto sotto controllo, affinché non trascini nel baratro; controllo dato dal Codice, ma anche dalla volontà di “normalizzazione”. Al contempo, anche quest’ultimo processo è, in un certo modo, opposto all’assassinio, per sottrarsi al versante un po’ persecutorio del Codice. Tutte le volte che Dexter prova a resistere al Trieb, lo stesso Harry lo richiama alla sua natura, dicendogli: “Tu sei questo…E da questo non puoi sfuggire”. Il “chi sei” non si può trasgredire: si può solo regolare.

La diagnosi differenziale

R.M.S.: È per tutto questo che il concetto di Codice è anche la chiave diagnostica, perché definisce una posizione soggettiva, in una tensione continua, che rappresenta il suo “essere sempre al lavoro con l’inconscio”, quello che Freud definirebbe Durcherbeitung.
Nella fenomenologia criminologica di casi simili è più frequente incontrare individui scompensati e quindi più vicini all’aspetto schizoide, che, quando prevale, produce un effettivo disorientamento. In Dexter, come abbiamo già detto, c’è un’eccessiva perizia compensatoria.
Nella letteratura filmica, solitamente, il serial killer ha un particolare gusto provocatorio nel mettere in scacco la polizia. Il vero obiettivo non è la vittima, ma l’Altro della Legge. L’omicidio è un segno per l’Altro, anzi propriamente un appello: a un Altro che sia in grado di capire, di fermarlo, talmente abile e superiore da poter fare tutto ciò. Perché, il serial killer, nella sua megalomania narcisistica, si perde. Quando questo Io megalomanico, che crede di possedere il diritto sulla vita e sulla morte, acquisisce troppo potere, l’Io inizia a temere l’alter-ego megalomanico e a sentire la necessità di proiettarlo all’esterno. Qui comincia a evocare allucinatoriamente un Altro, ancora più potente, capace di fermarlo. Si tratta allora di trovare l’individuo reale su cui appoggiare questa proiezione. Questo Altro che incarna la Legge, non solo è rispettato dal killer, ma diventa anche il suo conduttore, la causa scatenante dei suoi delitti. L’omicida seriale mette in evidenza tutti gli indizi per l’Altro, per capire se l’Altro è all’altezza da scoprirlo.
A.S.: Invece, in Dexter non c’è nulla di questo: lui non mira affatto a un Altro che lo fermi.
R.M.S.: Sì, lui parte da un presupposto completamente differente: parte dalla sua castrazione (Nota 3),cioè dalla consapevolezza del proprio sintomo. Sente che ha bisogno di rispondervi ogni volta, quindi cerca una vittima e possibilmente la cerca colpevole, per poter bilanciare i sensi di colpa; però è il sintomo che guida il bisogno di sfogare l’angoscia.
A.S.: Molto interessante, da questo punto di vista, è il confronto con Trinity, serial killer che compare nella IV serie televisiva.
Trinity e Dexter appaiono, a un’occhiata superficiale, simili: entrambi fingono di vivere secondo una realtà perfetta, con famiglie perfette, però, scavando più in profondità, si scopre un atteggiamento di violenza, soprusi, sottomissione che Trinity ha nei confronti dei suoi familiari e che in Dexter è completamente assente. Il “nostro” è violento solo quando, una volta selezionata con cura una vittima, si appresta a ucciderla.
R.M.S.: Questa è, appunto, una differenza diagnostica: Trinity è uno schizofrenico. La similitudine è che anche lo schizofrenico può usare dei criteri d’inscrizione in un senso di giustizia superiore, ma in realtà c’è una notevole differenza: le vittime di Dexter sono tutti criminali, quelle di Trinity no.
A.S.: Gli omicidi di Trinity seguono uno schema ciclico che comprende tre differenti tipologie di vittima, ma che si ripete continuamente. È per questo motivo che uccide: deve continuare a ricreare il ciclo.
R.M.S.: Ciclo che risponde a un disegno delirante, riproduce in forma allucinata una scena traumatica e la formalizza in un rituale “magico” rigorosissimo: le vittime sono costrette a recitare  un copione che non prevede deviazioni dal plot. Come il feticista che si garantisce il godimento solo in presenza dell’oggetto eletto a feticcio, così lo psicopatico tiene sotto controllo l’angoscia catastrofica attraverso il rituale e la specifica aderenza delle vittime al copione.
A un primo sguardo Dexter e Trinity sembrano uguali, ma la violenza irrazionale, il sadismo e gli aspetti deliranti del movente che caratterizzano il secondo, li differenziano. Dexter non ha alcun aspetto delirante: sa perfettamente chi vuole uccidere e cosa la vittima ha fatto per “meritarsi” ciò.
In realtà, Dexter non è un serial killer: non costruisce mai una serie di vittime. La serie viene dopo l’omicidio, solo nell’archiviazione di una traccia di sangue di ciascuna vittima come trofeo. Trinity, invece, è un serial killer.
A.S.: Però, la metodologia dell’omicidio, per Dexter, è sempre la stessa.
R.M.S.: Sì, ma la sua organizzazione mentale non lo è. Il serial killer “si cura” con la serie, perché questa gli permette di inscriversi nel sistema simbolico, così come la presenza dell’Altro, che vuole mettere sulle sue tracce per farsi riconoscere; egli ha bisogno di costruire una trama narrativa, che lo agganci a un sistema simbolico: il trofeo, il collezionismo…
Dexter, sì, tiene i vetrini con il sangue, però in realtà l’unico denominatore comune è che le vittime siano dei malvagi, pur non avendo caratteristiche specifiche, magari fisiche, come spesso accade per i serial killer, con la fissazione su uno specifico oggetto. È interessante come, in fondo, ci sia sempre un confronto con altri personaggi psicopatici e Dexter ne esca come non appartenente alla loro categoria.

L’umanizzazione di Dexter

A.S.: Il tema del sangue ha, però, al contempo, un ruolo molto specifico! In Dexter Il Vendicatore, quando reincontra il fratello maggiore, questi gli fa tornare alla memoria l’omicidio della madre, cui entrambi avevano assistito, ma di cui Dexter ha cancellato il ricordo. È interessante come egli noti il modo con cui il fratello pronuncia la parola “sangue”: con un tale senso di fastidio, di disgusto, come se ne rievocasse la consistenza viscosa. Evidentemente questo sentimento di repulsione è radicato nella natura di entrambi. Proprio a causa di ciò, tuttavia, essi sentono il bisogno di uccidere. In entrambi si può comunque riscontrare un’attenzione quasi ossessiva alla pulizia e all’evitare spargimenti di sangue: il fratello, in particolare, ne priva completamente le sue vittime, senza lasciarne alcuna traccia. Dexter, invece, diviene ematologo.
R.M.S.: Se una persona che ha subito un trauma di questo tipo è riuscita a diventare ematologo, fra l’altro molto competente, ha compiuto una potente trasformazione metonimica: dal punto di vista della guarigione dovrebbe essere già molto forte e sufficiente. Sì, perché quando si pensa al concetto di guarigione in psicoterapia, non si deve pensare di tradurlo moralisticamente in “normalizzazione”. Guarire dall’angoscia è diverso dal guarire in senso sociale. Se avessi un paziente con un trauma di questo tipo, pregherei il cielo di poterlo portare a un percorso sublimatorio di questo tipo, di trasformare l’ossessione del sangue in un’alta professionalità tecnica.
Dexter non è spaventato: non perché sia perverso, ma poiché ha trovato come godere e, al contempo, inserirsi in un processo di adeguamento sociale con cui maschera il suo sintomo. Un altro individuo che esce da un trauma del genere potrebbe vivere tutta la vita nel terrore del sangue o come un disadattato, in preda ad un’angoscia persecutoria. In fondo, c’è qualcosa di fin troppo riuscito in Dexter.
A.S.: Eppure questo è solo l’inizio del processo narrativo.
R.M.S.: La storia del personaggio nasce da un processo di “realizzazione” perversa, per andare in una direzione opposta, di maggior inquietudine, di minaccia di squilibrio.
A.S.: Perciò è la storia di una “guarigione”?
R.M.S.: Potremmo proprio parlarne in questi termini!
Prendendo un personaggio mitico appartenente ad altre generazioni, come Zorro, ad esempio, non penseremmo mai a uno schizofrenico o a un perverso.
A.S.: Zorro nella trama narrativa è comunque considerato un trasgressore della Legge, di una legge fondata sull’abuso di potere, sul sopruso. Egli difendeva da una legge “ingiusta”, Dexter da una legge “insufficiente”. Come anche Batman e la maggior parte dei supereroi.
R.M.S.: L’elemento comune che rimane negli eroi di ieri e di oggi è la dimensione tragica dell’eroe, che s’esprime in un doppio versante: quello universale del rapporto con la Legge e quello individuale che delinea lo spessore psicologico del personaggio.
A.S.: Nel senso in cui ad es. Batman, oltre che essere un “Cavaliere Oscuro”, diventa l’“Uomo Pipistrello”, proprio per combattere la sua profonda paura per i pipistrelli, nata da ragazzo, quando subì un trauma rimanendo intrappolato in una grotta popolata da quegli animali?
R.M.S.: Prendere quindi il simbolo della sua più grande paura e rielaborarlo per incutere timore nei suoi avversari potrebbe essere concepito come un processo di autocura.
A.S.: Dexter, procedendo con le serie, ma in modo ancor più significativo nei romanzi, risulta sempre più ”umanizzato”: all’inizio si configura nell’imitazione delle azioni umane, creando il suo personaggio perfettamente “adeguato”, ma, poi, diventa sempre più “umano”, inizia a provare un autentico affetto per la sua nuova famiglia. Tant’è vero che, nel romanzo Dexter Il Delicato, dopo la nascita della figlia, afferma: “Il Dexter da Decadi Distaccato si è trasformato in una creatura dotata di un cuore che batte e pompa vita vera, e che sembra quasi vantare una certa somiglianza con un essere umano…”.
R.M.S.: Dexter è intrinsecamente costretto a stare nella Legge, ciò vuol dire che essa è simbolicamente inscritta dentro di lui, altrimenti farebbe il serial killer outsider, senza controllo che, come abbiamo detto, ha bisogno di evocare l’Altro della Legge che lo fermi.
Improvvisamente scopre che nella recita ci sono anche dei valori interessanti che forse conviene non perdere, come il senso della famiglia, i figli, la paternità. Questo fa pensare quindi che non ci sia soltanto la dimensione traumatica alla base della sua origine, ma che forse, il legame tenero con la madre prima della sua morte e, successivamente, quello con il padre adottivo, in qualche forma, siano stati per lui una base di attaccamento abbastanza sicuro.
A.S.: Questo malgrado non si sappia con certezza se Harry sia solo il padre adottivo o anche il padre biologico.
R.M.S.: Però dentro di lui è così. C’è “del Padre”, qualcosa della sua funzione che ha valore normativo, per quanto non coincida con la Legge istituzionale.
L’autore fa di Dexter un personaggio che risponde al trauma, ma alla fine si crea una sorta di scissione forzata rispetto alla scena traumatica e lui si ritrova a fare il vendicatore, senza saperlo, dell’uccisione della madre.
A.S.: Lui è fondamentalmente concentrato in questo ruolo del vendicatore, tanto che l’altra componente, quella dell’adeguamento alla normalità, mostra uno sforzo “dis-umano”.
R.M.S.: Effettivamente è proprio questo secondo versante il suo sintomo: è questo ruolo che gli sta stretto. È qui che lui sente la Legge come la necessità di proteggere la sua natura intrinseca.
È affascinante, come quando vediamo questo tipo di fenomeno dispiegarsi in una psicoterapia, osservare come Dexter rimanga progressivamente catturato, invece, da una prospettiva di vita alternativa alla sua compulsione. Non possiamo dire che s’invertano completamente i piani; la Legge, da voce del Super-Io, diviene una possibilità alternativa del Desiderio.
Dexter “gode” nel mettere in atto la sua giustizia, ma comincia a “desiderare” altro, fino a soffrire di una nuova conflittualità. Questo conflitto è relativo al proteggere i suoi nuovi oggetti di Desiderio dal suo Godimento compulsivo.
A.S.: Un vero e proprio ribaltamento, quindi…
R.M.S.: Proprio così! Si affaccia nell’orizzonte perverso una dimensione nevrotica, un soggetto diviso fra Godimento e Desiderio: la compulsione da che funzionava da medicina per l’angoscia si va trasformando in sintomo, che mette a repentaglio i nuovi oggetti del Desiderio, come gli oggetti d’amore e la sua nuova posizione di padre. Oggetti che ha saputo “generare”. C’è da un lato la dimensione del togliere la vita, dall’altro quella del darla. Inizialmente queste due componenti sono bilanciate, ma, alla fine, si trovano in conflitto, poiché prevale la seconda: Dexter, avendo avuto una figlia (nei libri), ha generato una vita, che sente il bisogno di proteggere e preservare da se stesso e dalla sua pulsione distruttiva.
A.S.: È alla fine ancora quella voce paterna sullo sfondo che lo sottolinea: “Ti ho considerato un mostro, quando invece sei capace di fare molto di più. Se l’avessi capito, non ti avrei indirizzato verso questa vita.”

NOTE:

  1. Personaggio di spicco che affianca il protagonista.
  2.   Tutto il problema delle perversioni consiste nel concepire come il bambino, nella sua relazione con la madre, relazione che nell’analisi è costituita non dalla dipendenza vitale, ma dalla dipendenza dal suo amore, cioè dal desiderio del suo desiderio, si identifichi con l’oggetto immaginario di questo desiderio in quanto la madre stessa lo simbolizza nel fallo (Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, II, 551) Il perverso “passa il suo tempo a trasgredire la legge”. Gli atti perversi sono dei rituali sotto legge: “il perverso s’identifica all’oggetto”. (Castanet: “la clinique du passage à l’acte pervers”, 2007).  È risaputo che i perversi non si rivolgono all’analista. Ma questa idea deve ogni volta essere ponderata, meglio sarebbe dire che: i perversi non si rivolgono all’analista per la loro perversione. Il perverso è un uomo scientifico: sottomette il godimento perverso ai suoi strumenti scientifici. Non bisogna essere uno specialista della perversione altrimenti si rivaleggia con lui: egli necessità di una distanza clinica. (Salzillo, La perversione tra Freud e Lacan, 2010).
  3.   Nel linguaggio psicoanalitico il termine castrazione è avvicinabile al concetto di “limite”; quell’elemento reale o immaginario, esterno o personale, in cui il soggetto ciclicamente imbatte e con cui è chiamato, all’interno della triangolazione edipica, a confrontarsi. Al di fuori del modello psicoanalitico il concetto di complesso di castrazione viene poco usato, se non in forma metaforica per indicare particolari vissuti in cui il soggetto avverte da parte del mondo esterno (altre persone o situazioni) un atteggiamento che “castra” le proprie ambizioni e i propri desideri. In questo senso il concetto è sinonimo di frustrazione violenta, paralizzante.

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Dexter – ISSN 2239-6136 – Psicologia Psicosomatica