[intlink id=”291″ type=”page”]di Riccardo Marco Scognamiglio[/intlink]
Psicologia Psicosomatica – 09 – Pubblicato 23 Febbraio 2012
Per penetrare la differenza fra codici con cui si esprimono i fenomeni organici e codici della parola, il seguente articolo mette in evidenza come in altri campi di espressione esistano fenomeni simili di codici multipli non totalmente assimilabili l’uno all’altro o sovrapponibili. Si tratta del campo estetico, dove le forme d’espressione, solo su un piano fenomenologico sono omogeneizzabili alle regole del linguaggio verbale e della rappresentazione narrativa, mentre in realtà comunica su più piani paralleli.
L’errore psicosomatico
La grande difficoltà per gli psicologi e psicoterapeuti che si accostano alla disciplina psicosomatica, è quella di rischiare di cadere in un ingenuo psicologismo riduttivista, rappresentato dalla tendenza comune a interpretare i fatti del corpo alla stregua di rappresentazioni psichiche, come nella nevrosi. La tendenza più comune è quella d’interpretare i sintomi organici o come fatti estranei al contesto psichico o, viceversa alla stregua di sintomi isterici. Questo errore interpretativo è dovuto principalmente alla difficoltà di concepire un campo epistemologico articolato fra codici appartenenti a universi segnici differenti di tipo parallelo e non sequenziale. Per penetrare meglio questa differenza fra codici con cui si esprimono i fenomeni organici e codici della parola, il seguente articolo mette in evidenza come in altri campi di espressione esistano fenomeni simili di codici multipli non totalmente assimilabili l’uno all’altro o sovrapponibili. Si tratta del campo estetico, dove le forme d’espressione, solo su un piano fenomenologico sono omogeneizzabili alle regole del linguaggio verbale e della rappresentazione narrativa, mentre in realtà comunica su più piani paralleli.
Gli equivoci del codice analogico nell’ascolto musicale
Quando un musicista ascolta un brano musicale, non ha necessariamente bisogno di tradurre le frasi del testo musicale in rappresentazioni. Il codice musicale si presta a una traduzione analogica solo attraverso forzature di codice. Nei manuali di Educazione Musicale per la scuola dell’obbligo, in genere le vie per introdurre i bambini alla comprensione del linguaggio sonoro sono di due tipi:
a) l’esperienza diretta del ritmo nella sua capacità di induzione motoria
b) la via dell’analogia rappresentativa.
Per quest’ultima è utilizzata quella minima parte della produzione musicale nella storia che va sotto il nome di “musica descrittiva”. Ne sono un esempio Le quattro stagioni di Vivaldi, la VI Sinfonia di Beethoven, detta Pastorale o il genere del Poema Sinfonico (ad esempio: Quadri di un’esposizione di Musorgskij) che vuole avere proprio lo scopo di “narrare”, attraverso la musica, una storia e, quindi seguire parallelamente alla narrativa testuale le atmosfere sonore. La musica di scena va da sé, poiché dal Melodramma al balletto, alla colonna sonora di un dramma teatrale o di un film, si sforza di creare atmosfere, sollecitare emozioni, accompagnare vicende. A ben guardare, però, la naturalezza con cui la musica ci fa penetrare nell’atmosfera della scena, sul piano semantico non va affatto da sé, poiché se analizziamo i vari livelli del segno, non ci troviamo di fronte a corrispondenze univoche fra significante e significato. Questo avviene anche nel linguaggio poetico, che sfrutta l’ambiguità del significante per giocare all’equivoco, al doppio senso che dà la forza specifica al linguaggio poetico. Il motto di spirito funziona allo stesso modo: ridiamo di una barzelletta grazie agli equivoci che l’uso ad arte dell’ambiguità del significante in un segno introduce nel discorso. Una barzelletta “spiegata”, dove cioè i significanti si rendono semanticamente univoci, non fa più ridere nessuno. Così una poesia messa in prosa non rende più il gioco di slittamenti semantici e di atmosfere fonematiche che rappresentano per la poesia ciò che sono non solo i colori, ma la forza delle pennellature, le combinazioni cromatiche, i grumi di materia e persino le proporzioni della tela, per un pittore.
Se questo vale per tutti i linguaggi dell’arte, quello musicale, fra tutti, è quello che con più difficoltà si può tradurre in linguaggio verbale, poiché il passaggio da una “materia” – proprio nel senso del materiale linguistico (in questo caso: il suono) – all’altra già ne tradisce e deforma la portata informatica intrinseca.
Dagli anni ’80 la questione della semantica musicale, ha impegnato molti semiologi, concordi sull’idea che si possa ricostruire un codice di competenza comune nella musica (Stefani). Ciò significa che nella mente linguistica umana esistono delle costellazioni semantiche in grado di tradurre in modo ricorrente (quindi con una coerenza statistica) certe unità segniche del linguaggio sonoro. Questo andrebbe al di là dei codici specifici usati da quello o quell’altro compositore di epoche specifiche. Certo, non senza qualche ambiguità. Ad esempio: nel sistema tonale, l’utilizzo del modo minore, dà in genere una connotazione di tristezza. È statisticamente provato che la media degli ascoltatori, indipendentemente dall’età e dal grado di acculturazione musicale, possa connotare un brano in tonalità minore come “triste”, “malinconico”, “interiorizzante”, “romantico”, ecc… Come si può vedere, i rimandi connotativi sono di per sé ambigui, anche se possono essere ricondotti a una macrocategoria semantica abbastanza omogenea: quella del mood “di tono minore”, per l’appunto, se paragonato al modo maggiore che ha connotazioni opposte, gioiose o aggressive, espansive, ecc. Nella musica di scena l’aspetto connotativo si particolarizza grazie all’accostamento con la rappresentazione scenica: a quel punto i due codici si rinforzano e complimentano a vicenda e il segno prende una dimensione più denotativa. Quando un musicista vuole farci sentire la suspence in un film, vi riesce meglio di un regista. Perché? Perché oltre a complementarsi a vicenda, il codice rappresentativo scenico e quello sonoro, possono anche contrapporsi per aumentare l’ambiguità e quindi la tensione comunicativa. Ad esempio, se una scena filmica rappresenta un interno luminoso e ben arredato, in sé il segno potrebbe essere neutro, non connotato in senso emozionale; ma se la scena viene accompagnata dallo stridore degli armonici dei violini, come spesso troviamo nelle colonne sonore dei film di Hitchkock, oppure da atmosfere cupe, dai suoni gravi e dissonanti, immediatamente la connotazione emotiva sfiora la sicurezza denotativa del contesto panico: ci si aspetta che accada qualcosa di terribile!
In questo caso prevale il codice di competenza comune. L’esempio è facile! Nel cervello umano abbiamo dei decodificatori emozionali che rispondono a diversi codici. Come i cuccioli di scimmia che reagiscono con paura a una corda arrotolata perché possiedono geneticamente un engramma di riconoscimento di input ancestralmente pericolosi per la sopravvivenza della specie. In questo caso l’engramma cerebrale ancestrale assimila la corda ad un serpente, anche se nello specifico l’individuo non lo ha mai incontrato realmente. Così l’essere umano possiede engrammi neurali di risposta fobica a certi segni, quali il buio, probabilmente certe combinazioni sonore e certe forme di rappresentazione.
Nella storia della musica i tentativi di rappresentare col linguaggio sonoro trame rappresentative sono sempre esistiti. In forma più o meno ingenua il “realismo sonoro” si gioca fra la facile iconografia sonora dei significanti onomatopeici, dalla semplice riproduzione di “segnali” che funzionano immediatamente da indice contestuale (ad esempio le “quinte dei corni” che richiamano gli scenari di caccia, o le trombe che annunciano un ingresso ufficiale, tanto per un dignitario, quanto per il corteo degli sposi); ai tentativi di imitazione dei suoni animali, o di suoni della natura (ad esempio un colpo di grancassa o di timpani per simulare un tuono). Si tratta però di indici che, come tali spuntano all’interno di un tessuto che può risultare rappresentativo solo per via connotativa (e non denotativa) e a grandi pennellate, per allusioni, per stratificazione di universi segnici paralleli. La VI Sinfonia di Beethoven, detta appunto Pastorale ne un esempio preciso già a partire dal titolo volutamente connotativo.
La musica segue un ampio range di possibilità linguistiche che va, secondo i generi musicali e i periodi storici, dal polo più astratto che definirei “digitale” a quello più fortemente connotativo, sfiorando, come ho già detto, alcune possibilità denotative.
Se prendiamo come esempio una poetica specificamente rappresentazionale come quella del Madrigale Rappresentativo cinquecentesco, potremo trovarvi esempi di “realismo” sonoro che vanno però più apprezzati nel rapporto risultante fra l’accostamento di universi paralleli che non per l’assai discutibile risultato imitativo. Se il lettore volesse concedersi il tempo di ascoltarsi come esempio Il cicalamento delle donne al bucato di Alessandro Striggio, del 1567, rimarrebbe estasiato dalla sorprendente sperimentazione rinascimentale del coro madrigalistico che richiama il contesto del cicaleccio delle donne che mentre fanno il bucato al fiume, pettegolano animatamente fra di loro. Quest’opera s’inserisce in un genere musicale, la commedia madrigalesca, a cavallo fra il madrigale per coro a cappella e l’opera che qualche decennio dopo avrebbe dato origine definitivamente a musica destinata alla rappresentazione. Tuttavia, ciò che in questa raccolta di 15 madrigali di Striggio, o nelle Commedie Armoniche di Adriano Banchieri o di Orazio Vecchi si ammira particolarmente è proprio la sperimentazione di affreschi sonori in cui, più del realismo, si apprezza il preziosismo sperimentale di nuove sonorità che tentano di tessere trame fra universi di linguaggio paralleli. Nel linguaggio del madrigale s’intrecciano ai suoni onomatopeici le sonorità proprie dei versi di animali o dei dialetti che deformano già il testo poetico prima di essere musicato.
A ulteriore riprova, l’astrattismo rinascimentale si mantiene in pannelli sonori di cui la componente rappresentativa delle Commedie, in realtà, si riduce a pura geometria testuale, in quanto non v’è azione. Non c’è azione rappresentativa, ma c’è azione musicale. (Reese G., 1990).
La cosa paradossale è che l’azione musicale non è facilmente leggibile da chi non è musicista.
Anche una Sinfonia (ad esempio, la Quinta di Beethoven) descrive un’azione musicale, ma non segue una trama rappresentativa. Un orecchio musicalmente educato sa riconoscere nel suo quinto movimento, l’evoluzione del primo. Ma cosa succede a un semplice ascoltatore che non possiede una cultura musicale specifica? Per lo più per lui l’ascolto si tradurrà in onde emozionali che, a loro volta si trasformeranno in scene, per lo più ricordi. Proprio così: in genere, l’ascoltatore non acculturato musicalmente, non ascolta con l’emisfero sinistro, l’emisfero proprio del linguaggio, ma con le connessioni associative di amigdala e ippocampo. Costellazioni moto-sensoriali attivano flussi emozionali che si ordinano in quadri rappresentativi di tipo mnestico. In pratica, ascoltiamo la musica “sognando” ad occhi aperti.
Un musicista, quindi percepisce nella musica un percorso significante che non ha bisogno di tradursi in un altro processo di significazione. Un non-musicista traduce ciò che sente in un altro processo significante parallelo che assume le sembianze di un sogno ad occhi aperti, dove le dinamiche sonore si traducono in immagini, emozioni ricordi.
Perché il musicista non ha bisogno di fare questo? Non che non lo possa fare, non che non possa abbandonarsi al puro flusso sensoriale e lasciare che le ondate emozionali inducano rappresentazioni… Però non ne ha una diretta necessità. È qualcosa di simile a ciò che accade quando non comprendiamo una persona straniera che tenta di farsi capire nella nostra lingua quando noi, conoscendo la sua, lo intenderemmo assai meglio. Il musicista ascolta la lingua che conosce e come per ogni lingua il musicista non conosce solo vocaboli e grammatica, ma la capacità della lingua di veicolare universi paralinguistici, ossia un modo d’essere, di sentire le cose, di canalizzare sensazioni, emozioni ed elicitare sotto forma di tensioni, distensioni, sospensioni, ecc. atti motori impliciti.
Il non musicista è come quella persona che, trovandosi a porgere l’orecchio a persone straniere di cui non conosce la lingua, si lascerà guidare dal flusso sonoro cercando di sintonizzarsi con il tono, con i segnali non verbali e, di tanto in tanto nell’impressione di capire qualcosa nelle casuali assonanze con la sua lingua. Il suo ascolto si lascerà cioè guidare più dai tratti infra e soprasegmentali della lingua che non dai segni linguistici di cui non possiede la chiave di decifrazione. Per il linguaggio musicale, tuttavia, la Semiologia della musica, dimostrando che esiste un’universale competenza di base, ci fa capire come ci siano dei codici simbolici che il linguaggio musicale riesce a esprimere e che non sono riducibili a significati letterali. Questo vale, quindi, al di là della competenza emisferica prevalente nell’ascolto, tanto per il musicista quanto per il non acculturato. Si tratta però appunto di correlati connotativi che elicitano risposte somatiche (ad es., come abbiamo detto, atti motori o meglio attivazioni della corteccia premotoria: arousasl eccitatori, ecc.) presignificanti, cioè prerappresentative.
Dall’azione all’e-mozione
Questo principio è piuttosto estendibile a tutte le arti, comprese quelle figurative. Di fronte a un quadro del Caravaggio, prima di cogliere il significato metaforico di ciò che il quadro narrativamente rappresenta, siamo investiti da un insieme di forze vettorialmente orientate che danno alla narrativa il corrispettivo delle funzioni infra e soprasegmentali del linguaggio. Ci troviamo “mossi” dal quadro. Da questa azione motoria scaturisce l’e-mozione, arricchita da ciò che del processo poetico riusciamo a comprendere o immaginare, financo il contrasto fra ciò (e qui Caravaggio è maestro) che il quadro dovrebbe rappresentare e ciò che di fatto mette in scena, fino all’ob-stentazione, che in taluni generi pittorici è una strategia “motoria” oltreché intellettuale. Nel corpo viviamo l’attivazione motoria e nell’intelletto il contrasto fra la rappresentazione reale e quella ideale che rimane sempre virtuale, producendo frizioni semantiche (quando ad esempio una Madonna è raffigurata come una volgare popolana).
Se ascoltiamo una poesia, allo stesso modo, soprattutto una poesia del Novecento, sarà proprio l’oscillazione continua fra i diversi piani implicati dal linguaggio, a permettere di goderne appieno. La poesia gioca molto sul continuare a scivolare dentro e fuori dalla specificità del linguaggio per prendere una distanza dal linguaggio comune. Una poesia che parla un linguaggio comune e si vuole definire “poetica”, gioca sulla retorica della dissimulazione per creare un continuo spiazzamento del lettore. Se leggo la lista della spesa da un leggio sul palcoscenico è proprio la dissonanza (esattamente come in musica) che si produce nel confronto fra contesti a produrre l’evento estetico come trasfigurato. È lo stesso che accade nell’arte iperrealista. Ma è anche ciò che riscontriamo nel linguaggio musicale quando ci imbattiamo in un gesto sonoro che riconosciamo appartenente al nostro quotidiano sonoro. Quando lo riconosciamo è come se funzionasse strategicamente da ammicco per dirci: “Si si. Sono proprio io”. “Ma cosa ci fai qui?”- verrebbe da aggiungere. È questo il bello, che nella cornice artistica quest’ammicco in cui apparentemente ti ritrovi, in realtà è lì per spiazzarti. Più noto di un esempio sonoro è sicuramente uno qualunque dei ready-made di Duchamp (ad esempio Fontana del 1917, ricavato da un orinatoio).
La grandezza di Bach non sta soltanto nella geometria perfetta degli archi sonori che mettono in tensione tutto quel cosiddetto sistema tonale che nel ‘700 riceve quella forzatura dell’orecchio chiamato “temperatismo equabile”, che vuole l’ottava perfettamente divisa in 12 parti equivalenti. La grandezza di Bach, per noi inconcepibile sta nell’essere il più grande comunicatore della Riforma Luterana. Lutero aveva reso il popolo partecipe dei misteri del catechismo traducendo la Bibbia e ridimensionando il culto alla portata di tutti; aveva prodotto un vasto repertorio di canti e inni su testi tedeschi di facile comprensione e utilizzando melodie popolari, folk, appartenenti ai più diversi contesti volgari. Per il popolo fu facile cominciare a prendere attivamente parte del culto avendo nella memoria popolare tutto il repertorio melodico. Bach cosa fa? Riprende nei temi delle fughe, nelle Passioni, Oratori, ecc. quegli stessi temi continuando a parafrasarli. Anche una tripla fuga diventa così facilitata all’ascolto di chi ne conosce già i soggetti in tutto il suo complesso sviluppo. Oltre al fatto che anche una musica strumentale di carattere non religioso continua, in questo modo, subliminalmente, a riattivare memorie cultuali.
Da Mozart a tutto il Romanticismo, quando si ascolta una forma sonata si percepisce un forma di drammatizzazione che ricalca a piè pari l’opera in musica, ma in una forma così astratta che solo l’ascoltatore avvezzo a entrambe può avere coscienza che i temi della sonata funzionano in una dialettica drammatica che non esisterebbe se non esistesse la storia dell’Opera. E, al contempo il melo, ossia quella curiosa macchinazione retorica, chiave di tutta la poetica melodrammatica ottocentesca per cui un personaggio messo a morte riesce ancora a cantare a squarciagola tutta un’aria prima di soccombere, non esisterebbe senza la potente capacità astrattiva del linguaggio musicale. Così come non esisterebbero nella stessa opera i quartetti, i sestetti vocali, che rappresentano nello scorrere presunto di una trama tutta narrativa delle paradossali contrazioni spazio-temporali che solo la musica, la pittura e il sogno riescono a realizzare (Scognamiglio, 1996).
Tutto ciò avviene, dunque, perché vi sono linguaggi che possono viaggiare in parallelo, anche quando si supportano l’un l’altro, come la poesia per musica, talvolta giustapponendosi talaltra allontanandosi l’uno dall’altro in maniera da denunciarne l’inconciliabilità.
L’arte del rapporto fra musica e testo, musica e rappresentazione, musica e drammatizzazione sta proprio nel continuare a creare il gioco illusorio di binari che si giustappongono e si separano.
Bibliografia
De Natale, M. (1993) Musorgskij. Quadri di un’esposizione. Saggio di analisi, Milano, Universal Music MGB
Reese, G. (1990) La musica nel Rinascimento, Firenze, Le Lettere,
Scognamiglio, R. M. (1996) De’ teoremi d’amore. La parola e l’equivoco nel teatro mozartiano, in Quaderni Milanesi di Psicanalisi, n.10, SISEP, Milano.
Scognamiglio, R. M. (1996) La sordità freudiana in Progetto uomo-musica, Assisi, La Cittadella, n.10.
Scognamiglio, R. M. (2008) Il male in corpo. La prospettiva somatologica nella psicoterapia della sofferenza del corpo, FrancoAngeli, Milano