Uno sguardo foucaultiano sul corpo

Psicologia Psicosomatica –20 – Pubblicato il 15 Dicembre 2012  (ARTICOLO IN PDF)

 

di Matteo Fumagalli

Che forme assume “il corpo” all’interno della comunità terapeutica? Partendo da una prospettiva foucaultiana, il seguente articolo si propone d’interrogare “il corpo” nello scabroso legame fra cura e disciplina, fra terapia e controllo, fra dialogo e coercizione. 


Le riflessioni e le considerazioni esposte in questo scritto sono il frutto di una controversa elaborazione dei miei vissuti, in una breve quanto intensa esperienza presso una comunità terapeutica per adolescenti con gravi disturbi psichici. Spero che le mie parole non manchino di rispetto al dolore dei pazienti e al lavoro dei colleghi, ma da esse traspaia la complessità e la fatica di ciò che rende possibile un processo di cura.

L’intento di questo articolo è di mostrare alcune declinazioni che il termine “corpo” assume all’interno del campo istituzionale. Nello specifico cercherò, affidandomi a un metodo di osservazione foucaultiano, di indagare «il nesso tra cura e disciplina, tra dialogo e coercizione, tra terapia e controllo, tra contenimento e contenzione», facendo trapelare «le valenze di potere che ogni presa in carico di un paziente necessariamente e inevitabilmente implica» (Galzigna, 2008, p. 57).

Sussiste all’interno della comunità un ordito non facilmente distinguibile fra la componente dialogico-terapeutica e l’ordine disciplinare, una contiguità fra cura e controllo, un intreccio fra la disposizione di un “apparato di forza” e l’efficacia dei metodi terapeutici. La mancata consapevolezza, nelle istituzioni della cura, di queste antinomie porta a sottovalutare le valenze coercitive del trattamento, alimentando la convinzione che quest’ultimo possa sussistere in una dimensione empatica pura e innocente. Non interrogare questa rimozione rischia di fornire «agli operatori della salute mentale, una sorta di cattiva coscienza» (Galzigna, 2008; corsivo mio, p. 60), sedimentando un’ipocrita idiosincrasia fra le teorie enunciate e le pratiche effettuate.

Inizierò l’itinerario di questo testo compiendo una breve panoramica sul tema del corpo nella comunità terapeutica, rifletterò in seguito sulla funzione di specifici elementi dello spazio all’interno della comunità, discuterò infine due casi clinici. Nel primo farò emergere il rapporto che s’instaura fra “corpo proprio” e “corpo della comunità”, nel secondo mostrerò come il contenitore istituzionale possa fungere per il paziente da protesi corporea.

La questione del corpo nella comunità terapeutica

La questione del corpo nella comunità terapeutica ricopre un ruolo centrale. Non sempre, tuttavia, diviene oggetto di discussioni cliniche, solitamente più indirizzate a indagare il versante psichico. Eppure, la struttura della comunità è luogo d’elezione nel contenimento di pazienti che esprimono forme esagerate di una corporeità fuori controllo, smisurata, spesse volte brutale, nella presenza e nei gesti. Si tratta di pazienti per lo più diagnosticabili in quadri di personalità borderline o di psicosi che si manifestano con anoressie gravi, deliri allucinatori, gesti autolesionistici, agiti comportamentali (es. fughe e minacce suicidarie), aggressività eterodiretta, promiscuità.

Anche il corpo dell’educatore si perde all’interno di amnesie discorsive. L’educatore, già ostaggio di una remunerazione economica irrispettosa della difficoltà del suo lavoro, espone il suo corpo a un forte carico di angoscia e tensione, dovuto all’introiezione di contenuti emotivi non tollerabili dal paziente, alla possibilità di subire violenze fisiche e verbali, e al livello di allerta cui lo sottopone la funzione di sorveglianza. Un’équipe di comunità che non prenda in considerazione questi punti o che non faccia partire da essi qualunque riflessione clinica crea un terreno fertile al sorgere della sindrome da burnout. Uno delle funzioni fondamentali dell’équipe è, infatti, la tutela del curante: consentire a quest’ultimo di prendersi cura di sé, per poi essere in grado di prendersi cura dell’altro. Sostando nella metafora corporea, l’équipe è un corpo che deve salvaguardare i propri organi affinché possa funzionare al meglio e, come espongo nella tesi di questo scritto, riflettere sul rapporto fra terapia e metodi coercitivi è parte di questo processo curativo.

Infine, relativamente alla questione del corpo, è centrale il ruolo dello psicofarmaco che, “ancorando” chimicamente il paziente, ne controlla la sintomatologia e nello stesso tempo ne aumenta la docilità e ne stravolge l’aspetto fisico. Non intendo addentrarmi in questa sede nella spinosa questione degli psicofarmaci, tuttavia ritengo che l’utilizzo del farmaco come «“assolutore simbolico della relazione” (Fausto Petrella) o addirittura come nuova camicia di forza chimica» (Galzigna, 2008, p. 90), vanifica l’impatto traumatico con la gestione del dolore del paziente, rendendo l’esercizio di potere e le tecniche dell’assoggettamento meno violenti e appariscenti ma, proprio per questo motivo, meno perscrutabili e analizzabili.

La spazializzazione del corpo

Ecco alcuni scorci degli spazi interni della comunità in cui ho lavorato: le porte delle stanze da letto sono costituite da un ampio vetro che, senza il pieno consenso di chi ci vive, permette l’osservazione di ciò che sta avvenendo; l’apertura e chiusura del portone d’ingresso principale avviene solo su richiesta e permesso dell’educatore, che può quindi disciplinare il flusso degli spostamenti; le finestre sono sigillate o dotate di un’apertura minima; la cucina è mutilata, alle normali stoviglie in ceramica, acciaio e vetro si sostituisce un intero servizio di plastica, la dispensa è chiusa a chiave e le sedie ancorate alle gambe del tavolo per non essere divelte. Elementi residui provenienti dalla passata realtà manicomiale? Oppure dispositivi di sicurezza e prevenzione del rischio? In ogni caso la presenza di questi strumenti era vissuta dalla comunità come imprescindibile, giustificata dalla (presunta) pericolosità dei pazienti. Il problema è che, nelle maglie di un discorso tautologico che fa derivare l’indice di pericolosità dalla gravità psicopatologica e quest’ultima, a sua volta, dall’indice di pericolosità, si zittiscono le questioni riguardanti i modi impliciti di vedere e sapere della comunità, le funzioni dei suoi spazi e le relazioni che stabiliscono i corpi in essi confinati.

Quello che vorrei proporre è di far parlare questi elementi, dargli voce, interrogarli in un’ottica meno scontata: se l’asetticità e la sterilità degli ambienti, la loro spoliazione consentissero un contatto diretto con il corpo dei pazienti? Se questo contatto, questo “mettere a nudo”, rappresentassero un fondamentale fattore di cura? Ecco che allora il ritirarsi degli spazi e lo schiudersi di un vuoto compresso potrebbero essere per il paziente un primo luogo di nascita, la possibilità di potersi disporre sottraendosi all’invadenza dell’Altro. Solo col tempo, e per effetto della capacità che la comunità ha nel restituire le condizioni di un ambiente familiare risanante, di «mettersi in armonia» (Galzigna, 2008, p. 91) col dolore del paziente, alla necessità del vuoto andrà a sostituirsi la possibilità di un’articolazione nel mondo.

Terrei a precisare che il mio intento non è di giustificare forme di negazione della libertà e violazione della privacy, ma di risvegliarle dal sonno epistemologico. È facendole persistere nel non-detto, nel taciuto, che si sprigiona la loro forza repressiva. Dall’altra parte, non si tratta nemmeno di una denuncia assoluta che mira alla loro totale estinzione nel segno di un ingenuo discorso antirepressivo. Voglio piuttosto richiamare l’attenzione sul bisogno di rendere espliciti questi elementi all’interno del discorso clinico, per positivizzarli proprio nell’atto della loro problematizzazione. Solo così è possibile muoversi lungo quel confine permeabile fra cura e potere, fra presenza e privazione, fra uno sguardo che restituisce un riconoscimento e uno sguardo intento alla sorveglianza.

Sonia e la rivendicazione del corpo

Sonia, una ragazza di 16 anni, si presentò in comunità con una forte problematica di cutting sorta all’età di 12 anni e che aveva reso la pelle dei suoi avambracci irriconoscibile, deturpata da tagli e bruciature di sigarette.

La comunità aveva stabilito con Sonia un progetto terapeutico, riassumibile in due punti: riavvicinarsi alla famiglia e diminuire i gesti autolesionistici.

Al suo ingresso in comunità alla ragazza fu consentito di tagliarsi all’interno della struttura residenziale, nel tentativo di vedere accolto il suo problema e di prevenire comportamenti rischiosi per sé e gli altri. Infatti Sonia era solita racimolare oggetti taglienti dai cassonetti dell’immondizia, per poi portarli di nascosto in comunità apparentemente ignara del pericolo di contrarre infezioni o dell’eventualità che altri pazienti potessero farne un uso improprio. Col tempo però l’inconciliabilità di vedute fra i membri dell’équipe e la difficoltà di gestire gli episodi di cutting fecero propendere per una modalità d’intervento di stampo repressivo. A Sonia doveva essere impedito di tagliarsi. Contrariamente alle attese, la frequenza del cutting non diminuì. Anzi, avvenne che la focalizzazione sul problema esasperò l’identificazione di Sonia con quest’ultimo, rinforzando la convinzione che la relazione con l’Altro potesse passare solo tramite il sintomo. A dimostrazione di ciò, quando una volta, con buone intenzioni da parte degli educatori, ricevette i complimenti per essere riuscita ad astenersi dal cutting per una settimana, ricambiò il gesto tagliandosi e rimproverandoci per quanto dettole. Inoltre, di fronte alla disposizione di misure cautelative, la ragazza s’ingegnava nel trovare gli espedienti più incredibili per eludere i controlli. La situazione precipitò a tal punto che la comunità dispose, ogni volta che Sonia tornava da un giro o da casa, di compiere su di lei una perquisizione integrale, facendola spogliare completamente quando era presente in turno almeno un’educatrice donna (da questo elemento emerge come la presenza di soli uomini rivelasse una falla nelle procedure di sicurezza). Nessuna strategia era però sufficiente: la maggior parte delle volte, appena rientrata in comunità, Sonia trovava il modo di ferirsi con oggetti che era riuscita a nascondere nei luoghi più insospettabili dei propri indumenti. Osservando questi atteggiamenti, andavo convincendomi che il sintomo del cutting fosse una sfida e una provocazione nei confronti della legge della comunità, quasi a voler dire: «Anche stavolta ve l’ho fatta! Non siete riusciti a impedire di tagliarmi». Questo braccio di ferro era talmente forte da far divenire la specificità del sintomo pretestuale e quindi sostituibile con altre strategie ricattatorie. Infatti, il periodo in cui la comunità aveva alzato il livello di sicurezza compiendo perlustrazioni e perquisizioni molto più accurate nelle camere dei pazienti, e riuscendo così a frenare con un certo successo le manifestazioni di cutting di Sonia, la ragazza, non potendosi più tagliare, decise di diminuire notevolmente l’assunzione di cibo. Dimagrì talmente tanto che la comunità fu costretta a portarla in ospedale per somministrarle flebo ricostituenti. A posteriori realizzai che, fra il digiuno forzato e il cutting, non sembrava esserci una reale differenza, poiché appartenevano entrambi a una dimensione autolesionistica che assumeva nella mente della paziente il ruolo di strumento di offesa-difesa nei confronti della comunità. In Sonia, le diverse espressioni di autolesionismo celavano una forte dose di aggressività eterodiretta, come se il vero e taciuto tentativo da parte sua fosse di provocare dolore all’Altro, provocandolo innanzitutto a se stessa. In queste forme incarnate del dolore agiva anche un elemento separatore che consegnava a Sonia la sensazione di poter scivolare via dalla presa dell’Altro (tramite il digiuno) o di escluderlo dal contatto col proprio corpo (tramite il cutting), di fatto paralizzandolo nella relazione. Vorrei far notare come la questione dell’esercizio del potere pervadesse il campo delle relazioni fra Sonia e la comunità. Al potere sottrattivo di quest’ultima, la paziente reagiva con il potere conferitole dal sintomo, rendendo quest’ultimo sempre più inafferrabile, facendolo sprofondare nel corpo, passandolo dalla pelle alla consunzione della carne. Questi fenomeni m’indussero a ipotizzare che la sintomatologia fosse il telaio su cui si tesseva una trama psichica da cui era possibile inferire un senso. La stessa dolorosa sensazione provocata dal taglio sembrava trovare una forma di rappresentazione a livello del rito in cui si consumava la scena del cutting: il gesto di tagliarsi e vedere il proprio braccio sanguinare imbrattando il pavimento, nell’attesa di donare allo sguardo dell’educatore immagini truculente. Sonia possedeva anche una certa maestria nel taglio, sapeva quanto tagliarsi e come far sembrare il tutto molto scenico (per esempio bagnando ripetutamente il taglierino con l’acqua).

In altre situazioni questo teatro psichico non era rinvenibile. Si trattava allora di stati incontenibili d’angoscia su cui il cutting agiva direttamente da regolatore. All’inizio, il difficile impatto degli operatori con quest’ultima tipologia di episodi creò delle incertezze nelle modalità di gestione e degli attriti fra le diverse figure professionali. Ogni volta si rinnovava il conflitto: l’incertezza fra il voler tranquillizzare la paziente con le parole, attraverso una relazione empatica o, al contrario, l’agire un contenimento immediato. È tuttavia improbabile riuscire a calmare una paziente all’apice di una crisi d’angoscia cercando di farla ragionare. Infatti, in queste situazioni, l’attuazione di un protocollo medico, quale la somministrazione di una puntura sedante, si rivelava la scelta migliore e più clinicamente corretta. Quando era in preda a crisi d’angoscia Sonia sembrava chiedere implicitamente un contenimento fisico. Molte volte i gesti di fuga, aggressività e autolesionismo erano giocati con l’unico e precipuo scopo di ottenere dagli educatori un’azione di sbarramento, di confine, d’interruzione. Durante quelli che io definisco i tentativi di “placcaggio”, il dimenarsi della ragazza sembrava non tanto finalizzato a voler sciogliere la presa degli operatori quanto ad aumentarne la forza, così da poter attivare delle scariche a livello muscolare capaci di diminuire le intollerabili sensazioni interne. Ciò che sto descrivendo non erano momenti privi di dolore per la ragazza, anzi erano spesso connotati da pianti incontenibili, capelli strappati e terminavano in una condizione di prostrazione e sfinimento. Nelle situazioni più esasperanti si arrivava alla somministrazione forzata dell’iniezione sedante da parte del personale infermieristico: in quei momenti, all’istante di massima aderenza degli operatori (con la ragazza immobilizzata da più persone), faceva seguito un altrettanto repentino distacco. Una volta terminato il calvario, ci si prodigava a medicarle le ferite sulle braccia o a stare con lei per consolarla.

In queste vivide scene erompe il legame fra cura e atto di forza. Questo nesso però non si dispone come nelle realtà delle case di cura private ottocentesche in cui, come afferma Galzigna (2008, p. 60), i pazienti «accettano il regime disciplinare proprio perché attratti dalla possibilità di godere i benefici di una “vita intima  e familiare”». Non si tratta cioè di un compromesso equilibratore fra empatia e disciplina. Al contrario, nella realtà da me sperimentata, il paziente cerca uno strumento terapeutico negli atti di forza esercitati dai curanti, trovandovi la soddisfazione del bisogno di un limite.

Oltre al tema appena enunciato, il caso di Sonia pone in evidenza due ulteriori questioni. In primo luogo il problema del contatto, del tocco dell’Altro che oscilla fra un bisogno negato e il timore che in esso ci si possa dissolvere. In questo senso, il cutting potrebbe essere inteso come il compromesso fra queste due posizioni. E in secondo luogo ci avverte sulla necessità di prendere in considerazione gli aspetti differenziali che sottendono la manifestazione di un sintomo, i molteplici scenari di senso che confluiscono nel bisogno di tagliarsi e le diverse catene causali che conducono al cutting.

Paola e la dissoluzione del corpo

Paola, 15 anni, venne inserita in comunità in seguito alla segnalazione dei servizi sociali, che denunciavano una situazione famigliare esasperata e di cui la ragazza sembrava esserne l’emblema. La famiglia, al momento dell’ingresso in comunità, era composta dalla madre, dalla sorella minore di Paola e dal fratello maggiore. Il padre invece, dopo aver trascorso un periodo di detenzione carceraria, era stato disconosciuto. La madre, che accusava problemi di salute fisica e una tendenza a cadere in stati d’animo depressivi, faticava a sostenere da sola il nucleo familiare e ammetteva l’estrema difficoltà a gestire la figlia sofferente. Il fratello maggiore si presentava come una figura dai tratti ambigui, da cui Paola denunciava di aver subito delle violenze fisiche, taciute e negate dalla madre. La sorella minore sembrava essere l’unica a possedere delle risorse psichiche, dissipate però nell’assunzione di un anacronistico ruolo genitorializzante. Riuscirà, grazie anche all’aiuto della comunità, a chiedere un affidamento familiare, sgravandosi da un insostenibile carico di responsabilità. Questa situazione compromessa e desolante trovava una diretta trasposizione nel comportamento imprevedibile e caotico di Paola, in cui si alternavano, agiti a gesti autolesionistici. Il suo modo di relazionarsi, che estenuava gli educatori, era improntato a continue e assillanti richieste, a cui spesso corrispondeva un’eccessiva adesività corporea, nella quale difficilmente si potevano distinguere manifestazioni di affetto da atteggiamenti molesti e invadenti. Le incessanti richieste, la propensione a stabilire relazioni elettive con singoli educatori, la difficoltà a gestire la propria presenza all’interno del gruppo, i repentini cambiamenti emotivi, le compulsioni rivelavano una struttura psichica carente, fragile e di difficile presa. Paola si comportava come una bambina piccola alla continua ricerca di qualcuno che potesse arginare il senso di vuoto, mentale e corporeo, che la attanagliava, qualcuno cui potesse affidare l’insostenibilità del suo essere al mondo. Il contatto con realtà quotidiane come quella scolastica, anche se somministrata a piccole dosi, aveva su di lei un effetto disgregante, inducendola a far immediato ritorno fra le mura protettive della comunità. Il forte bisogno di holding si esprimeva soprattutto nei continui tentativi, realizzati con tutti gli stratagemmi possibili (fughe, autolesionismo), di “rifugiarsi” in ospedale. Nella degenza ospedaliera, Paola sembrava cercare una dimensione di protezione e riconoscimento, la possibilità di trovare un luogo che, nelle sue diverse declinazioni, le donasse quelle cure primarie di cui sembrava non avesse fatto piena esperienza. Anche le numerose fughe erano tentativi di mettere alla prova la capacità di tenuta dell’Altro (educatore, forze di polizia), sentire se ci fosse qualcuno disposto a fermarla. Fu così che, quando due episodi di fuga rischiarono di volgersi in gesti suicidari, l’équipe decise fermamente di confinare la paziente all’interno della comunità. Paola accettò con docilità la nuova condizione, quasi a volerne confermare l’agognata attesa. Il problema tuttavia era successivo al suo internamento: una volta rinchiusa, che tipo di lavoro fare con Paola? Come restituirla alla quotidianità? Che cosa rappresentava per lei il mondo oltre la porta sigillata della comunità? L’accesso al paradiso o la via per l’inferno? Di certo, il suo comportamento segnalava che la funzione di contenimento poteva inizialmente passare solo tramite un terzo istituzionale. Le mura della comunità nella loro costituzione neutra diluivano l’impatto col mondo, vissuto come invadente e difficilmente gestibile. Questo sollievo coinvolgeva anche la figura educatoriale, investita da responsabilità e richieste che oltrepassavano le possibilità del singolo. Per esempio, alcuni membri dell’equipe respinsero la proposta, precedente all’internamento, di tenere Paola “braccata” durante le pause in cortile per impedirle la fuga: non sempre, infatti, educatori e pazienti riuscivano a tollerare una reciproca vicinanza corporea.

Il caso di Paola è rappresentativo di come la comunità terapeutica possa fungere, fin nella sua costituzione architettonica, da corpo regolatore che colma le mancanze di quell’originario corpo familiare che, nella sua condizione emorragica, non ha mai potuto far massa attorno al soggetto e neppure favorirne la nascita simbolica.

NOTE

I Per la tutela della privacy, ho omesso il nome della comunità terapeutica e ho scelto nomi del tutto fittizi per i casi clinici.

II Per “campo istituzionale”, concetto proposto da Antonello Correale (1991), si può intendere quell’intreccio tra dinamiche organizzative, affettive, ideative, linguistiche cui partecipano gli operatori e i pazienti e che va a modulare e condizionare il lavoro clinico, nello sforzo di sostenere le idee e i principi che fondano la mission di un’istituzione terapeutica.

III Per “foucaultiano”, intendo la possibilità, indicata dallo stesso Foucault, di applicare in un campo di pratiche il suo metodo e i suoi testi come una boîte à outils (scatola di arnesi). In questo caso rivolgo l’analisi ai meccanismi di potere nella loro forma disciplinare, alla loro azione sul corpo in termini fisici e spaziali, alla loro distribuzione tattica all’interno di un’istituzione.

IV La sindrome da burnout (alla lettera essere bruciati) indica uno stato di logoramento psico-fisico dovuto a un processo stressogeno. Il burnout, rinvenibile in particolare nelle professioni d’aiuto, si manifesta con esaurimento emotivo, depersonalizzazione, cinismo, deterioramento del benessere fisico. Nei casi estremi porta all’utilizzo di alcool e sostanze psicoattive, nonché  al rischio di suicidio.

V Faccio notare che, come per il caso di Sonia, anche per quello di Paola si ripresenta la stessa questione del nesso fra cura e potere.

BIBLIOGRAFIA

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